Giornata tipo di un soccoritore in tempo di coronavirus

Giornata tipo di un soccoritore in tempo di coronavirus

22 Marzo 2020

La giornata tipo dei soccoritori della Croce Rossa in tempo di coronavirus, sembra più che doveroso ringraziarli per il loro operato.

 

UNA NOSTRA GIORNATA TIPO NELLE ULTIME SETTIMANE

Sono un soccorritore , che oggi ha il compito di capo equipaggio

Siamo in sede, la nostra seconda casa , dove discutiamo, sanifichiamo e dove ancora per poche volte abbiamo ancora la forza di ridere e di giocare tra noi.

Drin drin drin drin drin drin (ecco il momento mai atteso)

Ecco la chiamata della centrale che ci comunica che il paziente è un sospetto Covid e che bisogna procedere come da protocollo.

Effettuo la vestizione : La tuta, i calzari, la mascherina, gli occhiali, i guanti: i colleghi ti controllano, controllano che non resti esposta neanche una parte minuscola del mio corpo.
Saliamo in ambulanza e cerchiamo con una battuta di smorzare la tensione, per non far trasparire i pensieri, compilo la parte burocratica, la sirena è accesa. Le strade quasi deserte, gli sguardi dei pochi in giro che ci vedono passare sono eloquenti, puoi quasi leggerli: "Eccone un altro!".

Arriviamo sul posto, in quel momento capisco quanto la tua squadra tema per te mentre ti dirigi verso l’abitazione di una persona , che aspetta guardandoti con uno sguardo, che conosce solo chi lo ha potuto vedere .
I pensieri in quegli istanti si affollano: fino ad un mese fa, sui pazienti arrivavamo insieme, in due o in tre, e ci davamo forza a vicenda ed era tutto più facile, ora ci sono io da solo a fare quella strada, la stessa.
Mi accompagnano al cancello, come per rassicurarmi."Noi ci siamo". Respiro piano, per evitare che gli occhiali si riempiano d’aria tanto da non farmi vedere più nulla. Continuo a cercare di gestire il respiro. Sento tutto di me, i battiti del cuore che aumentano con il respiro. Alla porta c’è sempre qualcuno che mi aspetta, con lo sguardo spaventato. Prima potevano guardarci in faccia tra colleghi e trovare un minimo di sollievo nei nostri occhi, e abbiamo sempre scherzato: "Quando ci vedono stanno già meglio", ci chiamano "gli angeli, gli eroi”.
Ora no, ora facciamo paura nascosti in quelle tute e con la faccia coperta. Il paziente ha la febbre da settimane, comincia a respirare a fatica. Il sospetto diventa quasi certezza. Cerco di tranquillizzarlo come posso, sente a fatica la mia voce, con la mascherina le parole fanno fatica ad uscire. Lo porto giù con me, sotto braccio come sempre, perché a distanza non sono capace. Siamo soli, nessun parente può seguirci, sono io la sua persona adesso, cresce la paura.
Comunico al resto dell’equipaggio di sedersi davanti e di chiudersi, trovo il portellone aperto, ora li sento più vicini. Salgo con il paziente, cerco di non farlo sentire un appestato, cerco di parlarci come faccio sempre, ma entrambi facciamo fatica.
Io comincio ad accusare la mascherina e gli occhiali in faccia, devo controllare il mio respiro, rischio di esplodere e strapparmi tutto di dosso. E arriva, inesorabile, il momento in cui penso: "Ho fatto tutto correttamente?", "Mi sono coperto adeguatamente?”

Ci dirigiamo in ospedale . Lo sguardo del paziente è sempre più spaventato, mi chiede: "E ora cosa succede?", "Cosa mi fanno?", "Dove mi porti?". Ma io di risposte non ne ho, vorrei poter rassicurarlo , ma i miei occhi non mentono.

Arriviamo in ospedale, abbiamo un percorso specifico. Ci entriamo insieme in quel percorso e i passi diventano più pesanti, non ne posso più di questa tuta e della mascherina, non respiro più.
È ora di salutarci.

Arrivo fuori, torno dai miei, torno "a casa", non posso ancora strapparmi tutto, devono aiutarmi. Lo facciamo piano per fare le cose con la testa, via la tuta, via gli occhiali, via la mascherina, l’aria, sento l’aria sulla faccia, respiro.

Finisce così un altro turno, ore in cui le emozioni sono forti e lasciano il segno.
Arrivo a casa, stanco, provato e dentro di me un’unico pensiero: “Finirà... Andrà tutto bene “

 

Alessio Luisetto