La Belva Giudea è uno spettacolo intenso, importante e superlativo
“La Belva Giudea”, è uno spettacolo teatrale, di Dogma Theatre Company, che si fonde perfettamente con la cinematografia, grazie a dettagli ed accorgimenti sapientemente dosati, attraverso prese dirette, che rendono quest’opera magistrale.
Ho avuto modo di vederla in scena a Milano, al Teatro Tertuliano il 29 Gennaio scorso; un teatro gremito di spettatori, rimasti estasiati, quanto la sottoscritta, da questo capolavoro, dove non è stato tralasciato nulla.
La narrazione
La narrazione procede per flashback, spezzoni, e salti temporali, che acquistano chiarezza, man mano che si dipana la storia, la Regia a cura di Gabriele Colferai è semplicemente grandiosa, e di grande impatto scenotecnico.
I salti cronologico sono scanditi di volta in volta da un oggetto, che rappresenta la memoria del ricordo di quel preciso istante, il tutto intervallato da un rallenty di luce, e suono, che rende ancora più istantaneo il momento.
Estremamente efficace, di notevole precisione e complessità, il disegno luci a cura di Federico Millimaci, capace di conferire spazialità differenti alla scena, scandendo i salti temporali della storia.
Un vero e proprio master da set cinematografico è il faro manovrato in scena, e le strisce di luce che tagliano di volta in volta la superficie del palco, alimentando con maestria l’attenzione dello spettatore sul momento rappresentato, lo stesso vale per gli effetti sonori.
Del campo di concentramento scorgiamo degli spiragli, che fanno presagire l’estrema essenzialità dell’ambiente, la durezza, e le condizioni, oltre il limite della sopravvivenza umana dell’ambientazione, che donano un’ennesima incisività del contesto storico riprodotto dall’opera teatrale, e della crudeltà dello stesso.
Le scene dedicate agli incontri, risultano talmente specifiche e ben interpretate, che riescono a riprodurre a pieno, la concitazione del momento, e la fragilità psicologica del personaggio, interpretato più che magistralmente dall’Attore / Regista Gianpiero Pumo, non a caso ha vinto il premio “Giuliano Gemma”, come migliore Attore.
La storia di Herzko Haft
Herzko Haft, (interpretato da Gianpiero Pumo), era un ebreo polacco, il più piccolo di otto figli, che per salvare il fratello, fu internato a soli 14 anni, nel campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau.
Una storia drammatica, cruenta, e reale, purtroppo, caratterizzata da una disumana sofferenza, e dalle
torture subite da Herzko, costretto a lavorare anche 16 ore al giorno, caricando pesanti sacchi di cemento.
Così Herzko, diventa solo un numero il 144738, non è più un essere umano, subisce la trasfigurazione e
l’annientamento, dettato dai nazisti tedeschi.
Per sopravvivere Haft si crea uno spiraglio intimo e personale, che diventerà l’unico motivo per resistere a
cotanta disumanità : il desiderio di ritrovare la donna amata Leah.
Un ufficiale delle SS nota la stazza robusta, e la tempra forte di Herzko, così gli propone di boxare, contro
altri prigionieri, nel campo di sterminio.
Haft accetta di combattere, aggrappandosi alla disperata possibilità di sopravvivere, guadagnandosi il
soprannome di “Belva Giudea”, affrontando match spaventosi, senza regole, dove chi perde muore.
75 incontri vinti
Sopravvivere per Herzko, significava vivere ad ogni costo, facendo i conti con una realtà orribile,
e i sensi di colpa, che segnano ulteriormente la coscienza del protagonista, costretto ad uccidere
gli avversari, per salvarsi la vita.
L’amore per Leah, diventa il filo conduttore, che fa da motore a questa storia drammatica, un sentimento
così forte che nemmeno l’estrema durezza dei campi di concentramento riesce a dissipare, tanto che
Hertzo, non smetterà mai di cercare la donna amata : Leah.
Uno dei kapo, “Shnider”, riuscirà a farlo arrivare negli Stati Uniti, ed Haft pur di ritrovare il suo amore,
lancerà una sfida al campione dei pesi massimi, Rocky Marciano, da cui ne ricaverà una sconfitta,
(minacciato di morte se avesse vinto), ma a lui non importa, l’importante è che giornali e televisioni parlino
di lui, per fare in modo che anche Leah apprenda la notizia, e sappia che è ancora vivo, e che anche lui si
trova negli Stati Uniti.
E’ proprio al termine dell’incontro che Haft (Giampiero Pumo) incontra Alan – interpretato dall’Attore Filippo Panigazzi – un giovane apprendista giornalista ebreo del “Times”, che parlando con il pugile scopre l’orrore della sua storia, rimanendone totalmente sovrastato e sconvolto, tanto da decidere di divulgarla.
La figura del giovane giornalista, ad un certo punto si fonde con quella del figlio di Haft, Alan appunto,
autore della biografia sul padre, un’ambivalenza, che accentua ancor di più l’esigenza, e la necessità di fare
conoscere questa storia, narrandola, affinché tutti possano comprendere nel profondo, un’altra verità
dell’olocausto nazista, per non dimenticare mai ciò che è accaduto, e per riflettere seriamente su questa
mostruosità.
Ed è così che si susseguono una sequenza di scene, in cui si vede il giovane giornalista, che si adopera per
montare un set cinematografico, dal vivo.
Alla fine Haft riesce ad incontrare Leah, ma il tempo impetuoso, e la triste sorte, lo mettono nuovamente di
fronte ad un’altra disgrazia : la donna è una malata terminale, trasfigurata dalla malattia.
Un dolore immenso, che come una ferita emorragica e inguaribile, non smette di sanguinare.
Giampiero Pumo rielabora il personaggio, e lo fa suo, riproducendone le emozioni, la rabbia e la sofferenza psicologica, al punto tale che quelle battute non potrebbero essere assolutamente recitate differentemente, egregiamente supportato dall’eccellente Regia di Gabriele Colferai, capace di fondere la teatralità alla cinematografia.